Marisa Varvello fa parte del coordinamento nazionale di Recosol, ex sindaca di Chiusano d'Asti ed insegnante in pensione è una grande lettrice e appassionata di letteratura.
Vorrei suggerire innanzitutto una scrittrice: Chimamanda Ngozi Adichie. Nasce in Nigeria nel 1977 e vive negli Stati Uniti. E’ una tra le più amate autrici di oggi. Una donna che nei suoi testi racconta l’Africa in modo dettagliato e affronta con coraggio la questione razziale, ma non solo. Si tratta anche di una scrittrice femminista. “Time” l’ha inclusa nell’elenco delle 100 persone più influenti al mondo nel 2015. Di seguito una selezione di titoli da leggere assolutamente (almeno) una volta nella vita: Metà di un sole giallo (2007) Americanah (2014) Dovremmo essere tutti femministi (2015)
Il libro che propongo è l’ultimo edito in Italia.“APPUNTI SUL DOLORE” (traduzione bellissima di Susanna Basso, uscito nel 2021 per Einaudi) è un catalogo con cui Chimamanda Ngozi Adichie dà addio a suo padre. Non è un saggio e non è un testo narrativo, per certi versi ricorda gli appunti, bozze di pensiero in divenire, appunti che nessuno ha mai voglia di riorganizzare e il cui esito assume sempre una forma imprevista e non controllabile. Il 9 giugno Chimamanda Ngozi Adichie telefona al padre James. La
telefonata è breve, lui è stanco, lei riesce comunque a farlo ridere. Alla fine si dicono ka chi fo, buonanotte, e riattaccano. Il giorno dopo, 10 giugno, James Nwoye Adichie è morto, per le complicazioni di un blocco renale. Intanto nel mondo c’è il Covid, e così la notizia viaggia dalla Nigeria agli Stati Uniti attraverso Zoom. Il dolore è tante cose: è una lacerazione improvvisa del tessuto grammaticale, è un fatto fisico, può essere egoista, è iconoclasta le immagini non bastano, è sgarbato, è maleducato, talvolta violento, e la scrittrice se ne rende conto: «c’è un video che mostra la processione della gente in casa nostra per mgbalu, la cerimonia delle condoglianze, e mi viene voglia di fare irruzione e cacciare tutti fuori dal soggiorno dove mia madre già occupa il divano in una placida posa vedovile. […] io penso: Andatevene! Che ci fate in casa nostra, che cosa avete da scrivere su quel quaderno? Come
osate trasformare questa cosa in una realtà?». Il dolore – e questo è uno degli aspetti più interessanti del libro – è una questione culturale. Il dolore igbo non è il dolore statunitense: «c’è un valore nel modo igbo, il modo africano, di trattare il dolore». Il modo igbo è un modo da tragedia greca, è un modo molto classico, molto diverso da quello occidentale. È un modo che prevede una «reazione drammatica e performativa», oltre a una serie di rituali e usanze ben precise. Il corpo della vedova, ad esempio, deve recare l’impronta della perdita: la donna che ha perso il marito deve rasarsi i capelli in segno di lutto. La scrittrice e i suoi fratelli protestano in coro che è ridicolo, che nessuno ha mai pensato di rasare un uomo alla morte della moglie, e che questa cosa, semplicemente, non si farà. È però la stessa vedova, loro madre, a intervenire: «Farò tutto quel che si deve fare», dice. Questo perché il dolore non è solo una questione culturale, non è solo locale – è anche individuale.