Bologna 7 luglio 2023: Assemblea nazionale Città Accoglienti. La posizione di RECOSOL

RECOSOL ha accolto l’invito del comune di Bologna a partecipare ad un incontro nazionale   finalizzato alla costruzione di una Rete di Città Accoglienti e per dare voce a quelle realtà che ritengono le politiche di accoglienza e integrazione ed i diritti degli stranieri centrali per lo sviluppo delle comunità territoriali. L’assemblea si è svolta a Bologna il 7 luglio 2023 e ha previsto la partecipazione sia in presenza che da remoto ed è stata molto partecipata. Erano presenti amministratori da tutta Italia, Matteo Biffoni, sindaco di Prato e presidente di Cittalia, tante le associazioni di settore. Per RECOSOL era presente Franco Balzi, del coordinamento nazionale e sindaco di Santorso (Vi) che ha aperto i lavori con un intervento molto apprezzato e applaudito che riportiamo qui di seguito. Questa assemblea ha aperto una serie di incontri finalizzati alla creazione di un documento congiunto tra amministrazioni e enti del Terzo Settore che verrà presentato ufficialmente il 3 ottobre, anniversario della strage di migranti a largo di Lampedusa.

INTERVENTO DI FRANCO BALZI :

Buon giorno a tutti

Voglio innanzitutto ringraziare il Comune di Bologna per questa iniziativa e per lo spazio messo a disposizione di Recosol, che qui rappresento.

Recosol è una realtà che da 20 anni coordina esperienze locali, mettendo insieme le competenze e i saperi delle comunità civili con le responsabilità delle amministrazioni locali (più di 300), che ogni giorno si spendono per un Paese più giusto e solidale. All’interno di questa ampia rete di progettualità da sempre è operativo anche l’impegno per l’accoglienza dei rifugiati, a cui oggi dedichiamo questo approfondimento.

E’ a tutti evidente che – ancora una volta – il sistema italiano d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati sia di nuovo in crisi.

Quel sistema pubblico dell’accoglienza e dell’integrazione, che abbiamo conosciuto come SPRAR, SIPROIMI ed ora SAI – nei fatti ridotto ad essere marginale rispetto le diverse forme di accoglienza emergenziale che si sono succedute negli anni e a più riprese oggetto di azioni di forte depotenziamento – oggi viene di fatto smantellato nei suoi principi costitutivi e programmatici.

Era accaduto nel 2018 con il decreto Salvini 1, ed accade nuovamente ora, con la legge 50/23, con cambiamenti profondi, che ne snaturano il significato. L’accoglienza dei richiedenti asilo rimane ad esclusiva gestione del Ministero dell’Interno, salvo le situazioni vulnerabili; i Comuni vengono chiamati ad occuparsi solo dei percorsi di integrazione sociale dei titolari di protezione internazionale, speciale e di altre situazioni delicate (ex minori, vittime di tratta ecc.).

Della gravità di questa scelta si è parlato poco, anche tra i comuni, come se fosse stata una scelta che non modifica l’identità del sistema SAI.  E invece dobbiamo obbligarci a riflessioni critiche profonde. Riflessioni oggi attualissime, senza le quali è davvero alto il rischio di degradare il dibattito sulle politiche di accoglienza e dell’integrazione a mera competizione per la sopravvivenza tra apparati burocratici, tra sistemi, senza più identità e senza più logica unitaria.

Per capire quanto questa scelta sia grave è necessario chiedersi perché la cosiddetta “accoglienza diffusa” dei richiedenti asilo con gestione dei servizi da parte delle amministrazioni locali viene così tenacemente contrastata considerato anche che tutte le ricerche scientifiche sono state univoche nel riconoscere che si tratta un modello che produce rispetto dei diritti fondamentali, coesione sociale e sicurezza, con costi quanto mai contenuti.

Servirebbe comprendere perché sia stato e sia ancora oggi oggetto di un simile accanimento da parte del legislatore, accanimento conosciuto in diverse fasi politiche, e perché lo sia stato nonostante i confortanti risultati ottenuti in termini di reale integrazione sociale e comunitaria, peraltro ottenuti nonostante una serie di pesanti vincoli amministrativi).

Ma serve anche provare a comprendere perché il modello non sia stato adeguatamente sviluppato e tutelato nel corso dei più di 20 anni di vita, considerandone funzione sociale e – dati alla mano – risultati.

La risposta a questa domande – ne sono convinto – risiede proprio nel positivo funzionamento del sistema: la logica di fondo che ha permesso di dare vita allo SPRAR (e poi al SAI), si è dimostrata capace di generare ricadute positive in qualsiasi contesto, sia al nord come al sud del Paese, sia in grandi che in piccole aree urbane.

La logica della non ghettizzazione, dell’accoglienza nei contesti sociali ordinari, l’inserimento nel territorio, la spinta all’autonomia dei richiedenti asilo fin dal loro primo arrivo e la stessa assenza di misure di limitazione della libertà delle persone accolte dovrebbero essere considerate da qualunque orientamento politico dei valori da custodire e non delle scelte da contrastare.

È un modello che – al di là di tutti i limiti che noi per primi abbiamo cercato di evidenziare in questi anni – ha evidenziato la sua validità e la sua efficacia, dimostrando che l’accoglienza è possibile, e si può fare bene, creando le premesse per una buona integrazione.

E proprio per questo – ne sono convinto – viene attaccato e, se possibile, smantellato.

Queste sono le scelte governative che abbiamo sotto gli occhi, sulle quali non possiamo e non dobbiamo tacere, perché siamo di fronte ad un ennesimo passaggio politico dall’impatto devastante, non solo sul piano delle pratiche operative, ma su quello dell’identità culturale e valoriale che ci dovrebbe caratterizzare.

Però serve anche una parallela riflessione, che allarghi l’obiettivo su una responsabilità più ampia. 

Dopo ventun anni dalla sua nascita il sistema SPRAR/SAI non è affatto divenuto patrimonio culturale condiviso.

Dobbiamo interrogarci, come Comuni e Associazioni, se ciò non sia accaduto anche perché il sistema che diciamo di volere forse non lo abbiamo veramente promosso e difeso nei diversi ruoli e responsabilità.

Siamo stati un po’ tutti solo dei “gestori”, degli erogatori di servizi, degli amministratori neutrali.

Neutrali invece non si può essere in questo campo: o si sceglie di seguire una strada innovativa o la si rifiuta.

Dobbiamo denunciare le responsabilità di chi in modo chirurgico e cinico porta avanti queste politiche, a livello nazionale; ma dobbiamo anche discutere delle responsabilità politiche e tecniche del mancato sviluppo e crescita del sistema come sistema realmente unico, realmente nazionale, realmente diffuso e realmente emancipante.

Dobbiamo affrontare noi per primi Il tabù che ha tollerato il sistema pubblico dell’accoglienza integrata e diffusa come un’eccezione minoritaria, incapace di sfidare ad esempio il nodo dell’adesione volontaria al programma, anche a costo di perdere progressivamente la propria identità.

Siamo stati nella migliore delle possibilità “una buona prassi, una eccellenza”, destinata però a rimanere tale e che ha accettato di non farsi sistema: quindi una esperienza costitutivamente limitata, per pochi, in pochissimi territori, con un orizzonte precario e limitato.

Questa condizione residuale (o imposizione?) del “non farsi sistema”, ha condizionato la governance dell’apparato SPRAR-SIPROIMI- SAI al punto da sostituirne il programma originario, perdendo l’orizzonte del senso, gli obiettivi, l’identità stessa.

E così si sono consumati e deteriorati i rapporti tra autorità centrali e la rete dei progetti, e si è inaridita la spinta partecipativa con la progressiva burocratizzazione dei processi, portando alla sensazione di un’impossibilità di riforma e di sviluppo del modello, che invece ne aveva assoluta necessità e urgenza.

Sulla burocratizzazione – prima di procedere oltre – va spesa qualche chiara parola: è stata una scelta (strategia?) che ci ha mummificato in una dimensione residuale e che ha sacrificato in nome della conservazione il rapporto con gli attori sociali che animavano il programma. Una metodologia di lavoro i cui impatti sono calati pesantissimi sui territori. Come se non il modello partecipativo e relazionale dell’accoglienza diffusa, non i suoi metodi, le sue pratiche così diverse dall’accoglienza nei grandi centri, non la sua prossimità alle dinamiche sociali dovessero e potessero qualificare questa innovativa forma di accoglienza; si è invece scelto (o perlomeno legittimato) un rigido sistema di controllo, spesso insensato e miope, quasi si dovesse giustificare e legittimare la comunque ingombrante presenza al fianco del più capiente e diverso nella filosofia di fondo, quello del sistema emergenziale.

Le modifiche introdotte in questi mesi si innestano su una fragilità strutturale del SAI, ex SPRAR, mai affrontata, né tanto meno risolta.

Tutti i Governi, oggi come nel passato, hanno disatteso l’obbligo di attuare una reale programmazione attraverso la definizione di un piano nazionale di accoglienza. E questo ha impedito di immettere adeguate risorse a sostegno dello sviluppo effettivo del sistema SPRAR/SAI e ha consolidato il ruolo dei CAS (Centri di Accoglienza Straordinari), strutture che restano da troppo tempo la risposta privilegiata, e di cui non è previsto alcun superamento.

Fino a quando non sarà scelto con chiarezza il modello della accoglienza diffusa e integrata gestita dagli enti locali non ci potrà essere un approccio sistemico all’accoglienza sui territori.  

Se oggi siamo lontanissimi da questo modello, dobbiamo però avere il coraggio di dirci che una scelta chiara non è mai stata fatta. E che in troppe occasioni, ai vari livelli di responsabilità, non si è avuto né il coraggio né la volontà politica di imboccare questa strada.

Questo lo abbiamo detto – inutilmente – da tanto tempo.

Nel documento “Il sistema che non c’è”, redatto con grande cura dal Tavolo Nazionale Asilo, si evidenziava Il tentativo fallito dalla riforma del 2015 di dare centralità allo S.P.RA.R., prosciugando il sistema C.A.S.: il sistema binario ha continuato a vivere con il consueto totale sbilanciamento verso il sistema emergenziale e – solo sulla carta – temporaneo dei CAS. (….)

Uno squilibrio che non si è mai modificato tanto che ancora dicembre 2021 il sistema S.A.I. (erede dello SPRAR) era in grado di garantire solo il 33% dell’intero fabbisogno nazionale”.

Secondo questa analisi “la assoluta volontarietà da parte degli Enti Locali nell’assumere la scelta su SE e QUANDO aderire nonché uscire dal sistema S.A.I. in qualunque momento rappresenta la principale criticità che impedisce strutturalmente lo sviluppo del programma nazionale di accoglienza diffusa e integrata e la sua effettiva trasformazione in un sistema unico nazionale che dopo vent’anni non si è ancora realizzato”.

Recosol – aderendo al documento del Tavolo Asilo – ha sostenuto con convinzione che il trasferimento delle competenze amministrative ai comuni, se fatto in modo attento e progressivo, non sarebbe affatto una forzatura, bensì un percorso in grado di valorizzare in primo luogo proprio il ruolo dei comuni evitando che si producano gravi ed ingiusti squilibri; ogni territorio verrebbe infatti progressivamente chiamato a fare la sua parte attraverso percorsi partecipativi con la società civile locale, impedendo che spregiudicate opzioni politiche di chiusura possano essere utilizzate per favorire la fortuna politica di alcuni e costringendo gli amministratori che credono nei valori della Costituzione e dell’accoglienza a farsi carico delle inadempienze degli altri.

La mancata evoluzione dello SPRAR da sistema sperimentale a sistema unico (possibile solo dentro la cornice del trasferimento delle funzioni amministrative) rallenta o addirittura impedisce la spinta ad agire da parte di un amministratore che voglia impostare un modello virtuoso di governo dell’accoglienza nel suo territorio, spesso mortificata dall’irruzione improvvisa di centri CAS degradati a meri parcheggi e privi di una logica di proporzionalità numerica rispetto alla popolazione residente, e dall’inerzia di quelli amministratori che spesso per opportunismo preferiscono non scegliere.

Tralasciando le riflessioni politiche sulle scelte adottate dal Governo, e quelle già richiamate sull’ulteriore impoverimento del modello SAI, è del tutto evidente che la pessima riforma introdotta dalla L.50/23 rende ancora più difficile l’apertura di un programma SAI nel proprio territorio di competenza: l’amministratore locale non ha infatti alcuna garanzia che il suo territorio non si popoli di un numero indefinito di CAS, se non addirittura di altre strutture con caratteristiche ancora più emergenziali.

Non vi nascondo che in molti di noi la stanchezza e lo sconforto si fanno sentire.

E non solo per le scelte che il Governo ha adottato, e che il Parlamento ha ratificato. E’ chiaro che non ci si può aspettare nell’immediato futuro alcuna evoluzione significativa del SAI.

In un momento così difficile, ci siamo a lungo interrogati su cosa fare.

Arrivando persino a pensare che non ci siano le condizioni per poter proseguire, con la consapevolezza che il rischio di essere indirettamente complici di una scelta complessiva sul tema immigrazione inaccettabile sia tutt’altro che remoto.

Il problema è però anche la debolezza e la scarsa incidenza di chi quel modello lo deve difendere, rilanciare, riformare.

In una situazione così buia e difficile riteniamo necessario serrare le fila, gestire al meglio la situazione che abbiamo, stringendo alleanze con quelle associazioni e quegli enti di tutela del diritto di asilo che hanno da sempre creduto al sistema SPRAR/SAI, e che oggi sono invece assai poco ascoltate.

Però dobbiamo coltivare ancora l’aspirazione a un cambiamento profondo della normativa che regola il sistema di accoglienza.

Non possiamo puntare solo, come avvenuto con la L. 173/2020, a ripristinare appena sarà possibile politicamente, la situazione ex ante: l’esperienza concreta ha dimostrato che questo non solo è insufficiente, ma che è anche sbagliato.

Tornare al sistema normativo previgente significherebbe anche tornare a quelle stesse fragilità irrisolte che non hanno consentito al sistema di accoglienza diffusa e integrata di diventare nel tempo il sistema unico che vogliamo.

Lo abbiamo detto più volte, nelle varie sedi competenti. E non siamo stati ascoltati.

Lo ripetiamo anche qui, oggi: a noi questa pare l’unica strada percorribile. Quelle più prudenti, già sperimentate, hanno dimostrato il loro fallimento.

Permettetemi una chiosa finale un po’ personale: ho 62 anni, e faccio l’amministratore da ormai dieci anni. Faccio il sindaco, il presidente della conferenza dei sindaci del mio territorio, e ricopro altri ruoli non secondari. Mi occupo anch’io, se mi permettete, di questioni complesse. Credo da aver lavorato sempre con i piedi ben piantati per terra, con la concretezza dei progetti reali, attuati.

Lo dico perchè mi accorgo che ancora oggi, nello sguardo di alcuni di quelli che mi ascoltano, a cui inutilmente ci siamo rivolti insieme con molti amici e colleghi, c’è spesso un’espressione un po’ irrisoria, che si utilizza verso le persone ingenue, un po’ velleitarie, che non capiscono la complessità delle cose…

A loro oggi vorrei chiedere: cosa ha prodotto la strategia della mediazione, del compromesso, del confronto possibile ai livelli della prudenza necessaria? Mi pare che i fatti parlino da soli.

Nel momento in cui il modello SAI è sotto attacco, noi siamo qui oggi ancora a difenderlo. Dicendo però – ancora una volta – che per farlo dobbiamo procedere con coraggio ad una sua profonda riforma.

Qualcuno dirà: a cosa pensi, se sai tu per primo che non è oggi possibile?

Qualcuno – un certo Martin Luther King – ci ricordava che “solo quando è buio riusciamo a vedere le stelle”.

E’ oggi, riflettendo sullo stato presente ma anche sul passato e sui nostri errori, che dobbiamo (ri)porre le basi affinchè appena possibile si produca un reale cambiamento che fermi la micidiale altalena di costruzione/distruzione del sistema di accoglienza.

Lo SPRAR è stata ventun anni fa una felice intuizione; e negli anni che si sono susseguiti ha dimostrato di poter essere uno straordinario strumento di innovazione nelle politiche di welfare, dalle enormi potenzialità.

La questione vera è che parliamo di qualcosa che ancora non è mai stato, nella forma in cui avrebbe dovuto essere. E che rischia di non diventare mai.

Proviamo a condividere questa amara consapevolezza: forse è il modo migliore per poter ripartire davvero.

Qui l’invito  e le motivazioni del Comune di Bologna:

INVITO

Qui l’intervento del sindaco Balzi scaricabile:

Intervento Recosol a Bologna – 07.07.2023