Manuelita Scigliano presidente di Sabir e portavoce della Rete 26 ottobre che ha radunato decine di associazioni con lo scopo di tenere insieme volontari, studiosi del diritto, cittadini, superstiti e parenti delle vittime del naufragio di Cutro. L’associazione Sabir gestisce progetti con sede a Crotone. Collabora con la rete delle Comunità Solidali ed è un ente no profit che opera da più di sette nel territorio del Crotonese svolgendo fra le altre attività assistenza per le persone con estrema vulnerabilità, incontra quotidianamente molte persone con background migratorio, spesso semplicemente di passaggio dalle coste calabresi. Un territorio in cui radicarsi è ancora più difficile che nel resto d’Italia, in cui la cifra caratteristica dei flussi migratori è proprio quella dell’estrema frammentarietà e transitorietà. In questa enorme matassa di fili che si intrecciano fra sportelli informativi e servizi di assistenza si raccolgono spesso le storie di chi è rimasto impigliato in un limbo fatto di attese e disillusioni, in cui i diritti vengono sventolati come privilegi da “meritarsi”, conquiste da ottenere, scardinando, con la banalità delle pratiche quotidiane e del linguaggio comune, il substrato teorico dell’applicazione universale dei diritti umani. Ibrahim ha poco più di 60 anni, venti dei quali passati in Italia, molti da irregolare lavorando come bracciante senza nessun contratto, senza diritti, senza paga minima garantita, senza contributi versati, senza nessuna possibilità di ottenere documenti o una casa, di poter usufruire di un percorso di integrazione.
Dopo tanti anni era riuscito ad ottenere prima del Covid un permesso di soggiorno ma, poco dopo, in un incidente sul lavoro ha perso una gamba. Disabile, senza più possibilità di poter lavorare per mantenersi, senza nessuna speranza di futuro in un paese in cui vive da invisibile da vent’anni, con un permesso di soggiorno speciale che viene rinnovato ogni anno per motivi di salute. In Sabir, chi
lo segue da tanti anni, sa che la sua vita trascorrerà in questo limbo da non cittadino, fatto di “non diritti”, in questo territorio di mezzo in cui si è membro di fatto della comunità ma si è condannati a starne ai margini, anche se si è contribuito, con il proprio lavoro, la propria salute, i sacrifici, al benessere economico della stessa.
Adhia, è arrivata in Italia a sette anni, man mano che gli anni passano il ricordo del suo paese di origine è sempre più lontano e confuso. La scuola, gli amici, una lingua nuova che oramai è la lingua delle sue giornate, dei suoi pensieri, dei suoi sogni.
Ma non è italiana Adhia, attraverserà le tappe della vita di bambina, adolescente, di giovane donna, come ospite di un paese che non le riconosce i pieni diritti di piccola cittadina, che confina anche lei in un limbo di incertezza, in cui la difficile costruzione dell’identità sarà condizionata da questo senso di esclusione, di non appartenenza, di non essere né abbastanza pakistana né abbastanza
italiana, di diritti “concessi” ma temporaneamente. Su queste piccole spalle ricade oggi il peso di
un’integrazione ad ostacoli.
Il referendum sulla cittadinanza al quesito n. 5 chiede l’abrogazione parziale dell’articolo 9 della legge n. 91 del 5 febbraio 1992, nella parte in cui si prevede che la cittadinanza possa essere concessa allo straniero solo dopo dieci anni di residenza legale. In parole semplici: cosa cambierebbe? Se il quesito venisse approvato, il tempo minimo di residenza legale necessario per richiedere la cittadinanza italiana passerebbe da dieci a cinque anni. Inoltre, questo diritto verrebbe esteso automaticamente anche ai figli minorenni dei richiedenti. Dando ad Adhia gli stessi diritti dei suoi compagni di classe, dando a Ibrahim la possibilità di essere “conosciuto” e “riconosciuto” nel paese in cui vive, paese che gli è costato anni di lavoro e una gamba. Riconoscendo a uomini, donne
e bambini che vivono nella nostra comunità e contribuiscono alla vita sociale ed economica, pieni diritti e pari dignità. Scardinando la pericolosa convinzione che la cittadinanza sia una “concessione”, un privilegio, un premio, che i diritti non siano in quanto tali appartenenti a tutti i membri del genere umano ma dote “di nascita” per alcuni e conquista “di merito” per altri, svuotando così di senso la parola stessa diritto. Il diritto invece, conquista umana che si è costruita su tappe e riflessioni millenarie, rimbalzandosi fra culture ed esperienze storiche divere, è il linguaggio comune su cui dovremmo costruire non solo il senso e il valore di essere cittadini italiani ed europei, ma appartenenti tutti all’unica comunità globale.
Manuelita Scigliano
Presidente Sabir
Leggi la parte 1 qui:
https://www.comunitasolidali.org/referendum-cittadinanza-le-nostre-ragioni-per-votare-si/